Continua il discorso sull’equanimità, su quanto è difficile avere un cuore pronto a tutto, e sul perché dare un nome a ciò che proviamo e sentirlo nel corpo è la strada maestra per iniziare non solo a non avere paura di ciò che sentiamo fuggendo nell’azione – ognuno di noi ha un repertorio consolidato di modi in cui fugge da sé stesso e da ciò che sente attraverso scelte che, in fondo, non lo portano da nessuna parte- ma anche per scoprire che possiamo stare nelle difficoltà senza farci costantemente portare via dalla corrente dei pensieri che amplificano le nostre emozioni a dismisura al punto che a volte finiamo con il sentirci intrappolati.
Nel caso non lo sapeste, un’emozione non dura più di un minuto, un minuto e mezzo. Sono i pensieri, la tendenza della nostra mente a voler avere ragione a volte a scapito dello stare bene, l’illusione che è sempre pensando che risolveremo le cose, la paura di non potere affrontare le situazioni, che fanno sì che la mente proliferi e le emozioni difficili durino molto più di quanto vorremmo.
Dare un nome a ciò che sentiamo aiuta a creare spazio per vedere la nostra reattività invece che esserne trascinati via, sentirlo nel corpo ci aiuta ad ancorarci anche nelle difficoltà più grandi. E poi, c’è il potere della gentilezza, di cui vi parlo verso la fine…
Mi chiamo Carolina Traverso, Caro per gli amici. Sono nata in Costa D'Avorio da madre belga e padre Italiano. Sono cresciuta prevalentemente in Italia, ma ho vissuto anche in Iran prima della scuola materna, a Londra dopo l'Università e, sulla strada per tornare a casa, ho attraversato da sola per un anno l'India e il Sud Est Asiatico con uno zaino sulle spalle.
Da qualche anno lavoro e amo a Milano insieme a Iago, il mio pastore svizzero. Le mie esplorazioni intorno alla meditazione sono iniziate quando avevo diciassette anni, per curiosità, e sono proseguite, dopo i venti, tra Londra e l'Asia.
A voler essere sincera, mi sembrava di riuscire a cogliere solo in parte ciò che i miei insegnanti provavano a trasmettermi, ma sentivo che la pratica mi faceva stare bene e questo mi è bastato per farvi ritorno, nel tempo, sempre più spesso.
Ho sentito per la prima volta parlare di mindfulness una quindicina di anni fa, durante un ritiro di yoga a Goa, da una collega svedese che la insegnava. Desiderosa di approfondire, ho scoperto il lavoro di Jon Kabat-Zinn, me ne sono innamorata per il calore umano e il rigore scientifico, e in poco tempo mi sono formata come insegnante di mindfulness.
Da allora, sul mio percorso, ho incontrato centinaia di allievi e altrettanti maestri. Poter praticare e insegnare mindfulness, integrandola anche nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi fa sentire enormemente fortunata. È un dono immenso di cui non posso più fare a meno.