Duccio e il confine dell’amore. Ci sono amori che ci chiedono di restare, e altri che ci insegnano a lasciar andare. Questa è la storia di Duccio, e del momento in cui ha capito che amare non significa salvare.
In seduta con Duccio
“Non riesco a capire come ho potuto. Sono davvero arrabbiatissimo. Con lei, e con me stesso. Dopo l’ultimo scambio di messaggi, in cui mi dava persino consigli su come stare al mondo, ho fantasticato di dirgliene di ogni per giorni. Ma sapendo che tanto non avrebbe avuto senso, mi sono sfogato andando in bicicletta, che è meglio… Eppure, come posso togliermela dalla testa?”
Duccio ha conosciuto Amelia su Tinder un paio d’anni fa. La chat si è accesa subito: parole che scorrevano facili, ironia, curiosità. E quando si sono incontrati, ha trovato davanti a sé una delle donne più affascinanti che avesse mai conosciuto. Bella, intelligente, intensa, con mille cose da raccontare e un modo di farlo che ti faceva dimenticare tutto il resto.
Poi, dopo le vacanze estive, Amelia si è mostrata ancora più innamorata. Parlava di lui agli amici, lo coinvolgeva, lo faceva sentire speciale. “Persino mia sorella, che di solito è iperprotettiva, ne era rimasta colpita”, racconta Duccio. A Natale avevano già deciso di convivere. Sembrava la storia giusta, quella che ti fa pensare “questa volta è proprio lei”.
Ma dopo qualche mese, qualcosa ha cominciato a incrinarsi. Amelia, che per lavoro organizza eventi, tornava a casa sempre più tardi, spesso alterata. Prima ha negato, poi ha ammesso di aver fatto uso di alcool e cocaina: “Non è un vero problema, tranquillo. So gestire. È solo uno scivolone.” Peccato che gli scivoloni siano diventati la norma. Amelia ha interrotto sia la psicoterapia, sostenendo che la terapeuta non era in grado di capirla, sia gli Alcolisti Anonimi.
Duccio, che non sapeva nulla della storia di dipendenza di Amelia, ha provato in tutti i modi ad aiutarla. Ha cercato di starle accanto, di sostenerla, di convincerla a chiedere aiuto. Ma più lui si avvicinava, più lei alzava muri.
Con il tempo, la resistenza di Amelia si è trasformata in rabbia. Ogni tentativo di dialogo finiva in accuse, silenzi o fughe. Alla fine, Duccio – pur innamoratissimo – ha scelto di interrompere la relazione:
“Mi sono accorto che il problema non era solo l’alcol o la cocaina, ma il modo in cui funzionava lei. Doveva sempre primeggiare, essere al centro dell’attenzione, e non accettava nessun punto di vista diverso dal suo. Se provavo a esprimere anche solo un parere, diventavo un mostro che la attaccava. All’inizio ho pensato di essere io a sbagliare… poi ho capito che qualcosa davvero non tornava.”
Non era solo una questione di dipendenza, ma di come Amelia stava in relazione con sé stessa e con il mondo. Vedeva solo le parti di sé che la facevano sentire forte, negando le altre – quelle più fragili e dolenti – che, col tempo, hanno preso il sopravvento sino a distruggere tutto.
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Il cuore del lavoro
Il cuore del lavoro, con Duccio, è consistito nell’aiutarlo a distinguere tra l’amore e il bisogno di salvare. A volte ci convinciamo che amare significhi restare, comprendere, aggiustare. Che se solo fossimo più pazienti, più attenti, più forti, l’altro cambierebbe.
Per Duccio questo era ancora più vero: è cresciuto con un padre da cui si è sentito amato, ma anche facile all’ira quando veniva contrastato. Così ha imparato presto a essere comprensivo, a non prenderlo di petto, perché – come diceva sua madre – “papà è una persona buona, ma è fatto così: bisogna capirlo, poi gli passa”.
E se è vero che questo equilibrio ha funzionato tra i suoi genitori, è altrettanto vero che l’amore non è onnipotente. Può accompagnare, sostenere, ispirare, ma non può guarire chi non vuole essere curato.
Quando non c’è disponibilità al cambiamento, quando manca la volontà – o il coraggio – di mettersi in gioco, il lavoro diventa quello di riconoscere il confine: tra l’amore e l’annullamento, tra la dedizione e la perdita di sé.
Per Duccio, che nel tempo ha lasciato andare il bisogno di farsi capire da Amelia e, con questo, anche Amelia – pur continuando a volerle bene – significa imparare che prendersi cura di sé non è egoismo, ma un atto di lucidità e di rispetto. Anche verso chi si ama.
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Una riflessione per te
A volte, nelle relazioni, confondiamo l’amore con la dedizione assoluta. Pensiamo che, se l’altro soffre, il nostro compito sia restare. Che più resistiamo, più dimostriamo amore.
Ma restare non sempre è un atto d’amore. A volte è un modo di non sentire la paura di perdere, di non riuscire, di non essere abbastanza. O della solitudine.
La verità è che nessuno può salvare un’altra persona se quella persona non è disposta a guardarsi, a prendersi cura di sé, a farsi aiutare. L’amore può accompagnare, ma non può sostituirsi alla responsabilità personale.
Oggi, se vuoi, prova a chiederti:
– Ti è mai capitato di restare in una relazione più per paura di ferire che per autentico desiderio di esserci?
– Ti sei mai sentito responsabile della felicità o del cambiamento di chi ami?
– Cosa succede dentro di te quando riconosci che non puoi “salvare” una persona a cui vuoi bene?
– E come cambierebbe il tuo modo di amare se ti permettessi di prenderti davvero cura anche di te?
Questo articolo è tratto dalla newsletter di Carolina, per riceverla in anteprima puoi iscriverti qui.









